di Michele D'Ambrosio I Malavoglia Veniamo ora a dedicarci all’analisi della storia editoriale de I Malavoglia. Al momento della pubblicazione del romanzo, Giovanni Verga è ormai uno scrittore rinomato, come già ampiamente detto. Tuttavia, la storia editoriale del romanzo è singolare: Verga inizia a delineare l'opera nel 1874 durante il suo soggiorno a Milano. Non è un periodo facile per lui; infatti, proprio in quegli anni, l'autore riflette seriamente sull'abbandono della letteratura per evitare di essere un peso per la sua famiglia, come lui stesso afferma, per "non fare il parassita della famiglia" e non finire come Enrico Lanti, il protagonista del suo romanzo Eva. Le prime ricerche sul romanzo ci sono arrivate attraverso degli appunti che l'autore aveva annotato su dei fogli che spesso riutilizzava per altri motivi. Un esempio è il frammento M1, un estratto utilizzato dall'autore per scrivere alcune righe sulla commedia L'onore; stessa sorte è condivisa dal frammento M2, adoperato come foglio di calcolo per i capitoli del romanzo stesso, unitamente ad una lettera al futuro presidente del consiglio Sidney Sonnino. Nel frammento M1 si accenna già ad un personaggio che richiama vagamente quello che sarà nel romanzo Padron ‘Ntoni (dice infatti «Nei miei sessant’otto anni» e «voialtri giovani»); sono poi riportati altri personaggi come la Marianna, la futura Maruzza, in attesa del ritorno del marito; si fa menzione, inoltre, della stessa barca della Provvidenza di proprietà di padron Crocifisso; si nota inoltre una caratterizzazione spaziale, sono presenti infatti molti luoghi noti ai lettori dei Malavoglia come Capo dei Mulini, Ognina e Rotolo. Il frammento M2 si presenta, a differenza del frammento M1, più articolato nella descrizione familiare: i nomi sono diversi: la Zuppidda e ‘Ntoni diverranno infatti Maruzza e Bastianazzo; il nome della famiglia risulta essere Pappafave ed è presente anche un suocero. Una fase redazionale ancora legata ad una ulteriore bozza, ma ben più consistente, è quella rappresentata dal manoscritto M3, originariamente composto di 124 pagine numerate delle quali sono giunte a noi solo le ultime 80[1]. In questo manoscritto, si parlava di un «racconto» che sarebbe uscito sulla rivista «Illustrazione italiana» ipotizzandone anche una pubblicazione in volume. A caratterizzare questo abbozzo è l’aspetto linguistico, vi è, infatti, un crescente utilizzo di espressioni dialettali, locuzioni tipiche del parlato e l’utilizzo del proverbio[2]. Dopo il rifiuto della bozza M3 da parte della rivista «Rassegna settimanale di scienze, letterature ed arti», Giovanni Verga deciderà di riscrivere su nuove basi il suo scritto, passerà, infatti, ad immaginare un vero e proprio romanzo. E’ proprio in questa occasione che Verga, in una lettera a Capuana, renderà noto anche il titolo definitivo dell’opera. I manoscritti successivi a questo evento, denominati M4 ed M4 bis, sono organizzati in 22 pagine e contengono i capitoli III e IV con l’inizio del V. In questi manoscritti entra ufficialmente a far parte del romanzo la tecnica della coralità dei personaggi. Successivo ai manoscritti appena citati è M5, che porta il romanzo al capitolo VI, questo nuovo manoscritto apporta significative novità al romanzo, il cambiamento di prospettiva dell’autore ne è una. Il capitolo I del romanzo, prima di M5, principiava con una descrizione dei Malavoglia in questi termini: «tutti buona e brava gente di mare» in M5, in seguito a quanto detto, viene aggiunto «proprio all’opposto di quel che sembrava dal nomignolo, come dev’essere». Fino alla fine della stesura dell’opera, sarà proprio l’inizio del romanzo a presentare le difficoltà maggiori all’autore. Una volta risolta la questione del primo capitolo, però, il manoscritto viene ultimato ed inviato, il 25 aprile 1880, alla casa editrice Treves di Milano che lo pubblica nel febbraio del 1881. Facendo riferimento alla citazione verghiana riportata a pagina 6 del presente elaborato, la ricerca del vero dovrebbe riflettere ogni aspetto della società siciliana del tempo, si potrebbe concludere che nella società dell’epoca ci fosse un sentimento ecologico, anche se questo sentimento non può essere inteso nella chiave moderna a cui siamo abituati oggi. Con questa lente si è proceduti ad analizzare alcuni passaggi nei quali questa preoccupazione può sembrare effettivamente presente. I casi in esame sono essenzialmente tre, ciascuno dei quali con una propria peculiarità. Cominciando dal primo passaggio in esame: ‹‹Ora di là del Capo dei Mulini, li scopano dal mare tutti in una sola volta colle reti fitte […] Sono quei maledetti vapori che vanno e vengono, battono l’acqua con le ruote. Cosa volete, i pesci si spaventano e non si fanno più vedere. Ecco cos’è […] Bravo! Così i pesci non se ne troveranno più nemmeno a Messina né a Siracusa, dove vanno i vapori. Invece li portano di là a quintali colla ferrovia.››[3] Nel contesto sociale, emerso anche dalle indagini parlamentari sopra riportate, in cui verte la società siciliana presa in esame da Giovanni Verga, ovvero una società che lotta quotidianamente per la sopravvivenza anche dal punto di vista alimentare, si vede come il male viene incarnato dai pescherecci a vapore che deprederebbero il mare e ridurrebbero ulteriormente la disponibilità di pesce per gli abitanti locali a favore di altri uomini che, nell’immaginario comune della popolazione, vivrebbe lontano da loro assumendo la connotazione di stranieri. La veridicità e fondatezza di tale interpretazione sarebbe confermata sia dalla conclusione dell’estratto ‹‹Invece di là li portano a quintali colla ferrovia››, sia da quanto sostenuto a tale riguardo dagli studi di Ernesto De Martino che dimostra come le classi subalterne, così come i personaggi dei Malavoglia, siano sempre oppresse dal progresso e si rifugerebbero anche in teorie paranoiche e magiche come nel brano che segue. Per questo piccolo stralcio vale la pena tenere un approccio diverso rispetto a quello che verrà proposto affrontando i successivi. Nel 1866, Ernst Haeckel definì così, per la prima volta, l’ecologia: ‹‹scienza complessiva dei rapporti degli organismi con il mondo circostante››[4], era questa l’unica definizione che il Verga, all’epoca in cui scrisse il romanzo, potesse avere del termine. Pensare, dunque, che Verga voglia far passare, mediante il pensiero degli abitanti di Aci Trezza, il messaggio che lo sfruttamento delle risorse naturali (del mare in questo caso) possa essere un male e qualcosa da evitare per la conservazione del pianeta, è cosa errata e ben distante dai pensieri della gente dell’epoca. Al “quesito del Verga ecologico”, utilizzando i lavori di De Martino, si suggerisce una terza via, al di là del “sì” o del “no”. Le classi subalterne vedono notoriamente di mal occhio il progresso poiché inficia i loro sforzi quotidiani; infatti i pescherecci non garantiscono il mantenimento dell’equilibrio che la prima definizione di ecologia suggerisce. Si può dunque affermare senza timore che, in questo preciso stralcio di testo, Verga non fosse un ecologista ante litteram nella chiave di lettura che diamo oggi noi al termine. I personaggi del romanzo di Verga, appartenendo ad una classe subalterna, sono parte di un processo di emancipazione contro le classi dominanti, rappresentate in questo caso dai “vapori”. Verga non attribuisce loro un ruolo di salvaguardia dell’ordine naturale, ma una rivendicazione esistenziale, una rivendicazione primordiale che ci riporta alla lotta per la sopravvivenza procurandosi il cibo. Il secondo brano su cui vale la pena porre l’attenzione, è quello che fa riferimento ai pali del telegrafo che vengono installati ad Aci Trezza: ‹‹Non piove più perché hanno messo quel maledetto filo del telegrafo, che si tira tutta la pioggia e se la porta via […] Chè non lo sapevano che il telegrafo portava le notizie da un luogo all’altro; questo succede perché dentro il filo ci era un certo succo come nel tralcio della vite e allo stesso modo si tirava la pioggia delle nuvole, e se la portava lontano. ››[5] Questo brano ci offre una perfetta sintesi di quanto sostenuto da De Martino nell’analisi delle sue plebi rustiche: tramite ragionamenti che a noi potrebbero sembrare quantomeno assurdi e strampalati, i protagonisti del romanzo ricercano il colpevole della siccità nei cavi del telegrafo e, per diretta conseguenza, nell’invenzione del telegrafo stesso. Il tema posto, ovvero la siccità, in questo caso si direbbe presto risolto: la siccità è un problema annoso nell’isola, quando non piove ne consegue che sia i raccolti sia gli animali da cortile ne risentono conducendo la gente alla fame. Per libera associazione i personaggi dei Malavoglia incolpano il nuovo ed inutile mezzo della modernità che, come già detto, rischia di soggiogare ed opprimere le classi subalterne. L’ultimo caso che si andrà ad argomentare sulla possibile natura ecologica del romanzo è il caso di una esternazione che i pescatori fanno sulle acciughe: ‹‹Chè in mare ci devono aver buttato il colera anche per i pesci! […] e lo zio Cola tornava a parlare del dazio del sale che volevano mettere, e allora le acciughe potevano starsene tranquille, senza spaventarsi più delle ruote dei vapori che nessuno sarebbe più andato a pescarle.››[6] Nel terzo frammento di questo romanzo emergono le preoccupazioni riguardanti l'ambiente marino e gli effetti delle attività umane sulla vita marina. Lo zio Cola manifesta il timore che il colera, malattia presente nella società siciliana dell’epoca, possa essere finito in mare, sottolineando così l’ansia legata alla contaminazione dell’ecosistema e alla vita dei pesci. Le discussioni relative al dazio sul sale e sulle acciughe evidenziano la vulnerabilità degli organismi marini di fronte alle interferenze umane che minacciano la loro sopravvivenza. Questo passaggio si configura come una riflessione ecocritica, focalizzandosi sull'interconnessione tra le azioni umane, le condizioni ambientali e il benessere delle creature viventi nel contesto dell'ecosistema marino. Conclusioni In conclusione, possiamo affermare che anche se nell’opera di Verga vi è la presenza di ecologismo, spesso fine all’equilibrio tra uomo e natura, esso è dettato dall’annosa lotta per la sopravvivenza. Questo lo si evince dai brani presi in esame, in particolare nell’episodio della pesca selvaggia e nell’episodio dei pali del telegrafo. Più in generale, si può concludere che Giovanni Verga possa avere delle accezioni ecologiste, ma pur sempre contestualizzate nella sua epoca e, probabilmente, diametralmente opposte alle nostre. E’ d’uopo ricordare che la società ed il secolo in cui l’autore visse furono caratterizzati dal progresso sociale che, per l’epoca, era incarnato, in buona parte, dalla ferrovia e dalle macchine a vapore. L’industria ottocentesca era ancora un’industria fortemente basata sull’impiego del carbone, dove carbone non voleva dire altro che progresso e benessere economico e sociale.
[1] Le prime 44 furono, con ogni probabilità, inoltrate alla casa editrice Treves insieme alla lettera del febbraio 1876 nella quale Verga presenta il suo romanzo. [2] Tutte queste caratteristiche sono tipiche della scrittura verista di Verga. [3] Giovanni Verga, I Malavoglia, a c. di Ferruccio Cecco, Einaudi, Torino, 1995, p. 46. [4] Caterina Salabè, Ecocritica, la letteratura e la crisi del pianeta, Donzelli editore, Roma, 2013, p. XII. [5] Giovanni Verga, I Malavoglia, a c. di Ferruccio Cecco, Einaudi, Torino, 1995, pp. 72 – 73. [6] Ivi, p. 122.